Gruppo Missionario

GRUPPO MISIONARIO 

 

 

GRUPPO MISSIONARIO:

Il gruppo missionario ha come obiettivo di far fiorire e radicare la sensibilità e l'apertura missionaria consona di ogni comunità cristiana. Composto da una quarantina di persone sensibili ai problemi dei fratelli lontani in situazioni di forte disagio economico, il gruppo missionario ha lo scopo primario di sensibilizzare la comunità intera alla solidarietà.Più importante di raccogliere fondi, infatti, è lavorare per formare una cultura missionaria comunitaria. ecco perchè la prima attività di ogni anno liturgico è mettere in Chiesa un segno e un messaggio di sensibilizzazione per tutta la durata del mese di Ottobre. Anche le altre attività sono sempre accompagnate da materiale illustrativo perchè chi dona, doni con gioia e consapevolezza:

  • il mercatino di Natale,
  • la festa del dolce nel periodo pasquale,
  • la nostra presenza durante la sagra di San Giacomo apostolo, patrono di Caselle.

Per preparare e organizzare, il gruppo si incontra periodicamente, come pure per un percorso formativo guidato dal Parroco, Don Alberto Pregno. Il gruppo è aperto a chiunque voglia partecipare e collaborare; le date degli incontri sono nel bollettino parrocchiale. oltre al percorso parrocchiale, il gruppo partecipa anche agli incontri di animazione missionaria vicariali e diocesani. Il ricavato di tutte le attività è utilizzato per sostenere progetti che, decisi insieme ogni anno, attualmente sono:

  • la parrocchia " Ephifanie" in Camerun
  • sostegno a progetti del Cuamm
  • lo stipendio annuo ad un'insegnante in Kenya
  • un lebrosario in Egitto
  • materiale didattico per una scuola in Sudan
  • il Baby Hospital a Betlemme
  • la missione di Suor Nadia delle Piccole Figlie di S.Giuseppe

Referente: LUCIA

 

 

 

 GRUPPO PULIZIE CHIESA:

II gruppo per la pulizia della chiesa si ritrova con lo scopo di tenere pulita e ordinata la chiesa, come segno di rispetto e riverenza verso il Signore, e perché sia accogliente per chi la frequenta
Svolge le azioni concrete dello spazzare, lavare, spolverare….. profumato di amore e passione.

Si ritrova una volta al mese secondo un calendario predisposto insieme.

Referenti: Rita Bessegato e suor Eleonora Stefanuto

 

CONVEGNO MISSIONARIO DEL 18 MARZO 2012 

 USCIRE DAL TEMPIO:

Essere cristiani ed essere chiesa oggi alla luce del Vaticano II

 

video: Il Concilio Vaticano II

Il Concilio Vaticano II è stato indetto da papa Giovanni XXIII (11.10.1962) e concluso da Paolo VI (08.12.1965). Vi hanno partecipato 2500 padri conciliari. La Chiesa voleva dialogare e farsi capire in un mondo in continuo cambiamento. Era necessario rivedere e rivitalizzare tutta l’azione della Chiesa in relazione ai cambiamenti epocali e renderla più attuale al momento storico che si stava vivendo. Il Vangelo doveva parlare alla gente.

 

Il Concilio Vaticano I (1868-1870) indetto da Pio IX era stato sospeso per l’entrata a Roma dell’esercito sabaudo. Aveva sancito l’infallibilità del papa.

 

Prima rivoluzione copernicana del CVII: non è il mondo al servizio della Chiesa, ma la Chiesa è al servizio del mondo. Giovanni XXIII voleva un concilio pastorale, non dogmatico.

Seconda rivoluzione copernicana: prima sembrava che al centro ci fosse la gerarchia e il laicato fosse a servizio, ora invece viene messo al centro il laicato e la gerarchia è posta a suo servizio.

 

Nel corso del Concilio furono approvati 16 documenti: 4 costituzioni, 9 decreti e 3 dichiarazioni. Le 4 costituzioni riguardano:

 

          la liturgia  Sacrosantum Concilium

          la chiesa Lumen Gentium

          la sacra scrittura  Dei Verbum

          la chiesa nel mondo Gaudium et Spes

 

 

relazione

Serena Noceti, toscana, nata nel 1966 - dottoressa di teologia, insegna teologia sistematica alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, attualmente è vicepresidente dell’Associazione Teologica Italiana e socio fondatrice del Coordinamento Teologhe Italiana


Serena Noceti, toscana, nata nel 1966 - dottoressa di teologia, insegna teologia sistematica alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, attualmente è vicepresidente dell’Associazione Teologica Italiana e socio fondatrice del Coordinamento Teologhe Italiane

 

il concilio “davanti” a noi

Siamo una chiesa figlia del Concilio, e in quanto tale percepiamo che sono passati 50 anni. Dove ci troviamo? Al momento siamo nel vivo del processo di recezione del CVII.

Dopo ogni concilio nella storia della Chiesa si è sempre aperto un periodo, più o meno lungo, nel quale le chiese andavano accogliendo la novità che il concilio aveva consegnato, e questo avviene anche nel Vaticano II. Per recezione non si intende soltanto l’applicazione dei documenti conciliari, ma quel percorso, quel cammino di chiesa che nasce dall’evento del concilio, dai documenti e dalle intuizioni che in maniera vitale i padri conciliari hanno consegnato.

Nel cercare di fare il punto di questa recezione, di questa vita che dal concilio è nata, sicuramente ci troviamo in un momento non facile. Dopo una prima fase in cui si è percepita la novità che il Concilio aveva consegnato, un tempo di trasformazioni, di tentativi, di sperimentazioni, segnato da grande passione e creatività (fine anni ’60 e tutti gli anni ’70), è seguita una seconda fase nella quale si è cominciato a riflettere più puntualmente sul contenuto dei documenti del Concilio e si è cercato di consolidare alcune delle intuizioni, in rapporto soprattutto alla comunità, alla dimensione della ministerialità, all’importanza e centralità della Scrittura, alla percezione della novità delle forme liturgiche che rendevano tutti più direttamente protagonisti. È stato però, a partire dagli anni ’80, anche un tempo di iniziale fatica.

Oggi ci troviamo in una terza fase di recezione del Concilio, nella quale stiamo cercando di comprendere più profondamente, con una rilettura critica, che cosa sia avvenuto in questi 50 anni e cosa ci si apre davanti nella forma di un’eredità e di una sfida che il concilio ci offre. È un tempo di fatica, di disagio, di desideri che chiedono di essere accolti e riconosciuti. Sicuramente il contesto sociale e culturale è estremamente diverso rispetto a quello che 50 anni fa aveva accompagnato i lavori del Concilio. C’è un disagio dei giovani nel ritrovarsi nella realtà ecclesiale, delle donne, dei teologi, di tanti cristiani adulti che avvertono un po’ la separazione tra i documenti che la chiesa ci consegna e le sfide che nella vita di tutti i giorni continuamente siamo chiamati ad affrontare. A volte sembra un po’ che manchi il respiro nella nostra chiesa, che ci sia un senso di lentezza, una sorta di scisma, e soprattutto a volte avvertiamo le parole di una gerarchia che sembra un po’ lontana dalla nostra vita quotidiana.

E allora percepiamo che è tempo di fare il punto per riorientare la nostra rotta. Siamo coscienti che abbiamo una grande ricchezza, quella che ci viene dall’eredità conciliare, che ci è stata consegnata dai padri del Concilio ancora incompiuta, da accogliere e da vivere; ma percepiamo anche che ci sono paure, che ci sono rischi di ritorno a un passato, che ci sono resistenze, che ci sono tentativi di sminuire quella novità che invece appare evidente leggendo i testi del concilio.

Nel fare il punto, bisogna tener presente che il Concilio non è solo dietro di noi, non è solo la radice di ciò che noi siamo, ma è anche davanti a noi, è ancora anche per noi una stella polare, una meta verso la quale orientarci. E allora diventa urgente cercare di capire dove siamo, cosa stiamo vivendo.

 

Il disagio che avvertiamo è quello legato a un possibile volto di chiesa che percepiamo desiderabile e che vorremmo vivere nella nostra quotidianità, il disagio di un possibile che percepiamo tradito per troppa cautela, per paura del nuovo, per mancanza di coraggio e di fede evangelica, forse per mancanza di speranza e anche di profezia. E quindi percepiamo, davanti al Concilio, tutto il vasto campo di tante intuizioni possibili che ancora ci vengono offerte.

 

Cosa vuol dire essere cristiani ed essere chiesa secondo il Concilio Vaticano II? Quali sono gli elementi che nell’oggi della nostra storia, non 50 anni fa, ci interpellano in maniera forte e lucida?

Si tratta di interrogare le speranze che portiamo dentro di noi, di interpretare le sfide che sono ancora aperte dal Concilio e soprattutto di individuare qual è la dinamica essenziale intorno alla quale orientare i nostri passi. Tra tanti elementi che il Concilio ci ha offerto, è necessario individuare qual è il punto essenziale, un punto dinamico intorno al quale crescere e costruire la realtà ecclesiale; è necessario intuire nell’eredità del Concilio quale sia la realtà attraverso la quale passa il rinnovamento e la trasformazione che il Concilio ha consegnato come sfida aperta. Perché non si tratta di un punto statico, non può essere semplicemente un elenco di attività da curare o da svolgere, ma è un dinamismo, un processo.

 

sotto il segno del rinnovamento: i punti fermi

Il Vaticano II è stato il concilio della chiesa sulla chiesa. Comprendere la chiesa vuol dire comprendere il suo crescere, il suo divenire, il suo trasformarsi: questa è la Tradizione della Chiesa.

Il tema della chiesa è sicuramente al centro di questo evento del Concilio: indubbiamente il Vaticano II ci consegna una nuova visione di chiesa, diversa da quella del passato, segnata da una passione e da un’istanza di rinnovamento. Giovanni XXIII esprimeva questo ricorrendo al termine “aggiornamento” e richiamando la natura pastorale del Concilio, Paolo VI richiamava il termine attraverso il concetto di riforma. La dimensione della riforma, del rinnovamento, della trasformazione, della “trasfigurazione” di chiesa è al centro della passione conciliare.

 

Quali sono gli elementi portanti di questa nuova figura di chiesa che ha una nuova vocazione, cioè uscire dal tempio? Il tempio di una cristianità lontana dal mondo degli uomini è stato il desiderio che il Concilio ha affrontato e ha accolto, ma è anche la vocazione per noi oggi: uscire dal tempio di una cristianità  verso la quale vorremmo in qualche maniera rifugiarci perché più sicura, carica di secoli, per ritornare a considerare ciò che siamo nel mondo degli uomini e delle donne di oggi senza paura, con coraggio, con senso di profezia. Questa vocazione aperta è un appello e un comando che da 50 anni la chiesa ci ha consegnato con le parole del Concilio.

In cosa consiste dunque questa figura, questa trasfigurazione di chiesa a cui siamo chiamati? In cosa consiste questa vocazione, appello e comando a uscire dal tempio di una cristianità ormai passata? Si possono recuperare 4 prospettive, 4 grandi intuizioni che delineano il volto della chiesa secondo il Vaticano II:

1         principio costitutivo che fa esistere la realtà della chiesa: perché la chiesa esiste? Che cosa ci fa essere chiesa di Gesù?

2         grande definizione di chiesa che il Concilio ci ha offerto, la forma fondamentale: quella di popolo di Dio

3         “dislocazione”, nuova collocazione che il Concilio ha dato alla chiesa: il rapporto con il Regno di Dio e con il mondo

4         comprensione della Verità in rapporto al linguaggio del nostro tempo.

 

1)      perché la Chiesa esiste? Principio costitutivo della chiesa: dal principio autorità alla Parola annunciata

La visione ecclesiologica precedente al CVII è stata concentrata per lunghi secoli su un’idea di chiesa come società, come unione di più soggetti, tesa a un obiettivo (la salvezza delle anime dei singoli), un’unione garantita a partire da un principio costitutivo: il principio di autorità delegata. L’idea di fondo era quella di una chiesa fondata da Gesù che ha dato il suo potere ai 12, che l’hanno trasmesso ai vescovi, che lo trasmettono al resto del clero, ai presbiteri, e poi l’arrivo a cascata, in forma piramidale, ai laici.

Il Concilio, davanti a questa prospettiva, rileggendo le fonti bibliche e dei Padri della Chiesa, sottolinea un elemento nuovo, e ritorna a ciò che è stato considerato ovvio per troppi secoli in un regime di cristianità in cui tutti appena nati venivano battezzati ed erano immediatamente cristiani e tutti erano parte di questa società cristiana: cioè il fatto che la chiesa nasce dall’annuncio del vangelo.

DV e LG tornano continuamente su questo elemento: è l’annuncio del Vangelo che ci fa chiesa (1Gv 1,1-4: “Ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita che si è fatto visibile, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”). Nel suo nucleo generatore la chiesa nasce così il giorno di Pentecoste (Atti 2) dall’annuncio di Pietro davanti a tutti coloro che sono raccolti, ma nasce così in ogni luogo e in ogni tempo.

Non è dunque il principio di autorità che fa esistere la chiesa e mantiene legami di comunione, ma è il principio primario e fondativo del vangelo annunciato e della comunione di fede tra i credenti.

 

La Parola del vangelo che viene annunciata non è solo quella che viene proposta nel momento celebrativo dell’eucaristia da parte del vescovo, del presbitero o del diacono, e non è solo neanche ciò che viene annunciato nella catechesi e nei locali parrocchiali. Noi siamo chiamati a uscire dal tempio perché ciò che ci fa chiesa è l’annuncio del vangelo che non è dato solo dai ministri ordinati, solo dalla gerarchia, ma è responsabilità, dono e compito per ognuno di noi. Ciascuno è evangelizzatore, annunciatore del vangelo che fa chiesa. Ciascuno di noi annuncia il vangelo in tutta la rete di rapporti della nostra vita (con il coniuge, con i figli, con i vicini di casa, con i colleghi, con gli amici). Nessun luogo è alieno dalla Parola del vangelo. Quello che a noi oggi sembra assolutamente scontato, non lo è fino al CVII. Questa è la prima fondamentale perla che il Vaticano II ci consegna, una prospettiva radicale: richiamarci al fatto che la chiesa nasce e vive del Vangelo annunciato e che tutti ne siamo responsabili.

 

2)      forma di chiesa: il popolo di Dio

I documenti del Concilio ci offrono una nuova definizione, una forma fondamentale di chiesa, riassunta e ri-accolta intorno a un’espressione presente nel NT: popolo di Dio. È una categoria basilare, un modo di parlare di chiesa che dice il “noi” ecclesiale (che non è somma di persone, ma popolo insieme raccolto per la fede in Gesù), dice la storicità della nostra realtà, le radici del popolo ebraico e la dimensione di una vocazione sempre comune, da viversi insieme.

Questa categoria di “popolo di Dio” ha una storia strana: se è centrale per il NT e se la liturgia ne ha mantenuto la memoria nel corso dei secoli, per quanto riguarda invece la teologia, il modo comune di pensare, la predicazione e la catechesi, questa categoria è scomparsa dal V sec. fino al 1962. Era una categoria che non veniva utilizzata, un’immagine per parlare di chiesa che non veniva assolutamente considerata. Si parlava di società, di chiesa-corpo di Cristo, di chiesa-tempio dello Spirito, ma l’immagine più importante del NT, quella di popolo di Dio, era stata completamente dimenticata.

Il Concilio ci chiede di tornare a pensare la chiesa nella forma di popolo: noi siamo popolo di Dio (LG 2). Solo 3 o 4 teologi avevano studiato la questione prima del CVII, quindi è una cosa radicalmente inedita, ma allo stesso tempo estremamente antica, perché le pagine del NT sono tutte legate alla raccolta definitiva ed escatologica del popolo di Dio per la venuta del Regno.

È però una categoria difficile da accettare: infatti il post-concilio vede di nuovo l’inabissarsi della categoria “popolo di Dio”, a fronte invece di altre categorie, come la chiesa-sacramento, la chiesa-mistero, la chiesa-corpo di Cristo … Solo la teologia in America Latina e pochi teologi in Europa e negli Stati Uniti mantengono questa categoria.

Dunque, noi la avvertiamo, sappiamo di essere popolo di Dio, ma la teologia e i documenti del magistero sembrano averla marginalizzata e dimenticata.

Che cosa implica dire chiesa-popolo di Dio? E perché i vescovi nel concilio ce l’hanno consegnata come la descrizione portante di chiesa?

 

        soggettualità dei laici: riconoscere la soggettualità di parola e di azione propria dei laici. Anche questo è un recupero dopo secoli di oblio. Per secoli la definizione del laico è stata data esclusivamente in negativo: laico era colui che non è né clero né religioso. Il CVII è il primo concilio nell’intera storia della chiesa che propone un documento esclusivamente dedicato ai laici (Apostolicam Actuositatem) e un intero capitolo della costituzione Lumen Gentium (LG 4) dedicato alla vocazione, alla missione dei laici nella chiesa e nella storia. Elemento di novità indubitabile → cambia la prospettiva: non si parla più dei laici in negativo, ma viene riconosciuto un apporto unico, necessario e costitutivo per la vita della chiesa.

Nel concilio di Trento, il teologo Roberto Bellarmino dava questa definizione: laico è colui che non ha alcuna funzione nella chiesa. Veniamo dunque da 500 anni in cui tutti i sacerdoti si sono preparati alla teologia e al loro ministero pastorale studiando sul testo di Bellarmino e tutti citavano questa definizione.

Questo è un elemento chiave perché ci dice che nella chiesa la soggettualità non è solo quella che viene attraverso il potere delegato, che è propria del papa, dei vescovi, dei ministri ordinati, dei presbiteri e dei diaconi (altra grande novità), ma è propria di tutto il popolo di Dio. Ecco perché i padri conciliari, prima di parlare della gerarchia (LG 3) e dei laici (LG 4), hanno anticipato un capitolo, che non era previsto all’inizio della stesura di questo testo, dedicato al popolo di Dio (LG 2), per ricordarci che prima si parla della vocazione comune, che tutti abbiamo, precedente e previa alla specificità del ministero ordinato o alla specificità dell’essere laici e laiche nella chiesa. Popolo di Dio è quindi il capitolo che ci dice la comune vocazione e il fatto che solo insieme, ministri ordinati e laici, in una corresponsabilità condivisa, potremo servire la chiesa e il vangelo nel mondo. Non è più solo la parola dei preti, espressa nei locali parrocchiali, nel tempio, ma è una chiesa che vive nel tempio come vive sulle strade degli uomini (perché il tempio fa parte delle strade degli uomini). Popolo di Dio ci dice esattamente questa comune vocazione, questa comune responsabilità.

Siamo lontani dalle parole di Pio X, che all’inizio del ’900 scriveva: “nella sola gerarchia risiede l’autorità necessaria per promuovere e dirigere tutti i membri verso il fine della società; quanto alla moltitudine non ha altro diritto che quello di lasciarsi condurre e docilmente seguire i suoi pastori”. A noi laici è affidata oggi, insieme ai ministri ordinati, la responsabilità dell’annuncio del vangelo (LG 2). È facilmente comprensibile che il post-concilio faccia fatica ad accettare questa logica fino in fondo.

 

        condizione delle donne: seconda novità, inclusa nel pensarci popolo di Dio. Fino al 9 dicembre 1965 le donne non si sono potute iscrivere a nessuna università pontificia, perché era loro precluso la possibilità dello studio dei testi biblici e della teologia. Questi 50 anni hanno voluto dire il recupero della parola delle donne nella vita ecclesiale. Basti pensare alla ministerialità delle donne, a tutto il movimento catechistico (in Italia il 94 % dei catechisti sono donne), le caritas, la pastorale familiare, la pastorale giovanile, la partecipazione all’eucaristia domenicale o feriale. Il volto della chiesa è un volto che ha tratti femminili: lo ha sempre avuto, ma ora viene riconosciuta la parola delle donne come parola essenziale e costitutiva per poter comprendere il vangelo più profondamente e poterlo annunciare nella vita quotidiana. Questa è una vera novità che il post-concilio porta, anche se in realtà il concilio parla poco di donne: ci sono solo 9 accenni rapidissimi. Ma il post-concilio vede una chiesa di uomini e donne portatori di una parola necessaria.

 

        sacerdozio comune: terzo elemento di novità dirompente è il recupero di quest’altra visione di  popolo di Dio dimenticata. Nel NT il termine “sacerdote” è utilizzato per Gesù Cristo, “sommo sacerdote, santo, misericordioso, vicino a noi” (Eb), ma anche per tutti i cristiani: “hai fatto di noi un regno e sacerdoti” (Ap 1,6), “ci ha costituiti per un sacerdozio santo, per un sacerdozio regale” (1Pt 2,5.9). Nel NT dunque il termine “sacerdote/i” è utilizzato per il Cristo e per i cristiani, per il popolo di Dio, ma non è mai usato per i ministri ordinati. Questo termine è allora legato squisitamente alla dimensione del Cristo e alla dimensione primariamente battesimale.

Il concilio recupera questa realtà, il senso del sacerdozio secondo il NT: il dono di se stessi nella vita quotidiana, per amore, rendendo così culto a Dio → “Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi (cioè tutto voi stessi) come sacrificio spirituale, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale …” (Rm 12,1-2). È il recupero dell’intuizione grandissima del NT, del cristianesimo, che i cristiani sono un popolo sacerdotale: siamo un popolo che rende culto a Dio nel dono di noi stessi, per amore, nella nostra esistenza. Mentre lavoriamo, mentre cuciniamo, con le nostre scelte politiche ed economiche, con le nostre relazioni, con il nostro modo di vivere il tempo libero, il rapporto col partner, la paternità, la maternità, il servizio ecclesiale … tutto ciò che noi facciamo è chiamato ad essere espressione del nostro sacerdozio battesimale. Per il battesimo ciascuno di noi è immerso nel sacerdozio di Cristo e va a costituire un popolo sacerdotale. Noi partecipiamo della missione messianica di Gesù, siamo il popolo messianico (LG 9), partecipiamo della sua stessa missione di profeta, re e sacerdote. E il sacerdozio comune è previo a qualsiasi altra comprensione del ministero ordinato nella chiesa: perché il ministero ordinato è a servizio di questo sacerdozio comune.

Ciascuno di noi allora è chiamato a vivere la vita in questa logica, in questa prospettiva: davanti alla santità di Dio in ogni momento dell’esistenza. Questo comporta 2 conseguenze:

*         per il cristianesimo non c’è una sfera sacra e una sfera profana: non c’è un’azione sacra (pregare) e un’azione profana (lavorare), non ci sono persone sacre (preti, religiosi) e persone profane (laici), non ci sono spazi sacri (la chiesa) e spazi profani (il mondo). Perché  dalla morte di Gesù, siamo chiamati a vivere tutta la vita sotto la logica, la prospettiva della santità di Dio. Non c’è sacro e profano. Alla morte di Gesù “il velo del tempio (quello che separava il santo dei santi dal resto del tempio) si squarciò in due, dall’alto in basso”(Mc 15,38). Non c’è più un regime di separazione fra il sacro e il profano, perché tutta la vita è già segnata dalla santità di Dio e quindi tutti noi siamo chiamati a vivere il nostro sacerdozio in Cristo, come Cristo e con Cristo, nella vita quotidiana.

*         Siamo un popolo sacerdotale e solo insieme viviamo questo. Anche quando celebriamo l’eucaristia lo facciamo come popolo sacerdotale, come “assemblea celebrante” (SC): siamo il noi ecclesiale sotto/con la presidenza di un ministro ordinato, vescovo o presbitero, e la presenza di ciascuno di noi è determinante perché portiamo tutto quello che nella vita quotidiana, nel sacerdozio comune, abbiamo vissuto. Pensando al richiamo al rito di san Pio V, non è solo questione di una messa in latino. È questione di un’altra visione della liturgia: nella messa di s. Pio V chi celebra è il sacerdote mentre i fedeli assistono; nella celebrazione eucaristica secondo la riforma del CVII, noi siamo l’assemblea celebrante (tutti noi celebriamo) con e sotto la presidenza di un ministro ordinato.

Questo per i cristiani era fondamentale, perché nei primi secoli venivano condannati per essere atei, in quanto si vantavano di non avere né ara né altare, poiché il sacerdozio prima di tutto (pur celebrando continuamente l’eucaristia, la frazione del pane) veniva vissuto nella vita quotidiana.

Perché allora è difficile accettare l’idea di “popolo di Dio” fino in fondo? Perché la grande fatica del post-concilio si è giocata intorno ad accogliere o meno questa prospettiva nelle sue implicazioni? Perché vede i laici protagonisti e nella storia della chiesa, negli ultimi 1500 anni, questo non era mai avvenuto; perché comporta riconoscere che siamo insieme un popolo profetico, sacerdotale, regale, e mutare in maniera rigorosa la nostra mentalità.

3)      “dislocazione” della chiesa

Altra rivoluzione copernicana presente nei documenti del Concilio è il pensare il capovolgimento radicale in una “dislocazione” che è richiesta alla chiesa.

Prima del Concilio il grande dibattito, il grande confronto era sempre tra la sfera "chiesa" e il "mondo" come 2 realtà viste in una giustapposizione. Il Concilio rovescia questa prospettiva perché mette un terzo polo, il Regno di Dio = comunione con Dio e unità tra le persone. Non è solo comunione con Dio: è unità, nella differenza, tra persone e tra popoli. È riconciliazione, giustizia, pace, pienezza di vita per tutti i popoli e per tutte le persone.

Il Regno di Dio viene allora al 1° posto. Il Regno di Dio viene nella storia e la chiesa riconosce di essere parte di questa umanità, parte di questo mondo, parte di questa storia, al servizio del mondo. Ecco perché è una rivoluzione copernicana: perché non è più la chiesa che guarda al mondo davanti a sé, ma è una chiesa che riconosce, alla luce del vangelo ascoltato, che è chiamata a servire il regno di Dio che viene nella storia, nell’umanità, nel mondo, in lei ma anche al di fuori di lei. Viene nella chiesa, ma anche al di fuori dei confini della chiesa per il dono dello Spirito. Quindi è una chiesa che si disloca, trova una nuova collocazione, pensa a se stessa in una nuova forma, sapendosi soprattutto "relativa": relativa al regno di Dio e relativa al mondo. Questo porta di per sé a uscire dal tempio, cioè a uscire da una logica centripeta per assumere fino in fondo quello che Gesù ha proposto, una logica centrifuga, una logica di “andate in tutto il mondo e annunciate” (Mt 28,19), perché la chiesa è parte del mondo, è parte della storia, e sa che il Regno di Dio avviene in lei, ma avviene anche al di fuori di lei, e che quello che la chiesa è chiamata a fare non è promuovere processi ecclesiocentrici, ma è promuovere l’annuncio del vangelo ovunque.

Legato a questo, nel sapersi relativa, ci sono alcuni elementi che il Concilio ci ricorda:

-          il valore della coscienza e della libertà di ogni persona, davanti anche all’annuncio del vangelo

-          il valore di una laicità di chiesa

Noi esistiamo per annunciare il Regno. Quando avremo finito questa missione e il Regno verrà compiuto, la chiesa sparirà (“nella Gerusalemme non ci sarà più tempio Ap 21,22). Non solo noi siamo chiamati ad uscire dal tempio, ma dobbiamo sapere che non ci sarà più tempio nel Regno di Dio, perché la funzione di mediazione della chiesa sarà finita, avrà esaurito la sua ragione di essere.

 

4)      verità

Per secoli si è affermata una dottrina della verità immutabile dogmaticamente, mentre il Concilio ci richiama e ci richiede di pensare la verità nella sua dimensione escatologica, cioè nella sua dimensione di compimento che ancora sta davanti, e ripensare le parole “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16,13). Allora è una chiesa che sa di dover uscire dal tempio perché sa che il cammino verso la verità è un cammino a cui lo Spirito continuamente guida e che chiede soprattutto 2 passaggi:

 

*         ricordarsi che la fede cristiana è sempre inculturata, cioè è sempre espressa, compresa, detta, attraverso i linguaggi e le culture dei diversi tempi e dei diversi luoghi.

Immediato ma difficile cogliere il senso del passaggio, per un elemento molto forte: dal concilio di Trento la forma di chiesa in Italia, in Africa, in America Latina, in Asia era assolutamente identica. La liturgia era non solo celebrata in latino, ma era celebrata con le stesse parole e nella stessa forma, secondo un principio di uniformità assoluto. Prepararsi ad essere prete, quindi essere seminarista, in America Latina, in Africa, in Italia, negli Stati Uniti o in Australia era assolutamente identico: si studiava sugli stessi libri, con lo stesso percorso di studi, con gli stessi ritmi di vita. Lingua, forma, esperienze di chiesa erano segnate da una uniformità molto forte.

Oggi riconosciamo invece il valore delle tante culture che ci permettono non solo di poter annunciare il vangelo in forme più ricche e più varie, ma cogliere la pluralità che ci viene per poter comprendere il vangelo stesso.

Testo chiave nei documenti del Concilio è GS 44. La Gaudium et Spes nella prima parte è formata da 4 capitoli. Il 4° cap. si intitola: La chiesa nel mondo contemporaneo. I primi 3 nr (GS 41-42-43) sono dedicati a cosa la chiesa dà al mondo. Il nr 44 è assolutamente nuovo per la storia della chiesa perché si intitola: Cosa la chiesa riceve dal mondo. Anche se a noi può sembrare banale, è un cambio di mentalità enorme. E all’interno di questo testo si dice: è dovere di tutto il popolo di Dio, in particolare dei pastori e dei teologi, conoscere, discernere e interpretare i linguaggi del nostro tempo, non solo per poter meglio annunciare il vangelo, ma per poter meglio comprenderlo. Allora noi oggi, grazie ai linguaggi del nostro tempo, delle diverse culture, possiamo comprendere del vangelo degli aspetti che le generazioni precedenti non hanno compreso. Questo ci dà uno sguardo positivo e significativo anche sulla nostra cultura che ci sembra tanto sazia, banale, relativista, ma porta la ricchezza di una nuova prospettiva necessaria per poter comprendere il vangelo.

 

*         L’altro elemento è legato all’idea di chiesa colta in rapporto alla storia: si riconosce che la chiesa non solo può cambiare, ma deve cambiare, perché la chiesa è sempre stata in una dinamica di cambiamento e di riforma. Questo comporta ricordare che la chiesa si trasforma e che cerca sempre modi migliori per poter essere presente agli uomini e alle donne del suo tempo →  2 implicazioni:

-          non possiamo sacralizzare nessuna forma di chiesa che abbiamo ricevuto. Non esiste una forma di chiesa definita una volta per tutte, ma la chiesa sta in questo faticoso dinamismo di discernimento e cambiamento continuo, perché ancora il Regno di Dio che sta servendo non è arrivato. Ancora non è giunta la sua compiutezza e il Regno di Dio ci chiede continuamente conversione, cambiamento, forme nuove per poter essere adeguati alla nostra missione nel mondo.

-          Uscire dal tempio allora è anche uscire dalle forme costruite che abbiamo ricevuto precedentemente, perché non possiamo sacralizzare nessun già. Tutte le sue configurazioni, le sue forme, le sue istituzioni, anche i suoi sacramenti, portano la figura di questo mondo e finiranno (LG 48). "Portano la figura di questo mondo" vuol dire che sono in evoluzione e dobbiamo ricordare che hanno un termine, perché sono tutti tesi al compimento del Regno, all’essenza, alla comunione con Dio e all’unità tra le persone.

Chiunque voglia fermarsi sacralizzando un momento della storia della chiesa tradisce la vocazione ecclesiale, pensa di poter costruire una chiesa le cui forme e dinamiche sono definite una volta per tutte, ma questa chiesa non esiste, perché il vangelo sempre chiede alla chiesa conversione e trasformazione.

 

il concilio come EREDITÀ e come sfida

La cupola del Duomo di Firenze non è stata costruita con impalcature ma è autosostenente: i costoloni sono fondamentali. I documenti del Concilio ci consegnano una nuova figura di chiesa che è autosostenente, autoreggente proprio come quella cupola, perché i 4 costoloni, i precedenti 4 elementi, sono stati costruiti l’uno in relazione all’altro e permettono di sostenere la lanterna.

Il Concilio ci appare allora una casa da abitare, da costruire e ricostruire continuamente, come nelle cattedrali medievali o come la Sagrada Familia di Barcellona che è ancora una cattedrale in costruzione → Il Concilio è una sfida come costruire la cupola del Brunelleschi, come vivere ed essere chiesa in una chiesa che non ha tetto (chiesa di S. Galgano), come la cattedrale della Sagrada Familia nel suo essere progressivamente costruita. Dobbiamo capire dunque cosa possiamo fare, perché il Concilio e l’idea di chiesa è stata affidata a noi.

 

La prima cosa da fare, il punto zero, è ritornare a leggere i documenti, accoglierne la forza e la lucidità anche per il nostro oggi. Dopo di ciò il primo passo è individuare le resistenze: facciamo fatica a passare dalla nostra chiesa del passato, che però vive ancora nelle nostre parrocchie, la chiesa tridentina, organizzata fondamentalmente intorno ai sacramenti (l’80 % delle attività di un prete nella vita parrocchiale e degli operatori pastorali sono dedicate alle celebrazioni eucaristiche, alle celebrazioni sacramentali e al catechismo dei bambini), a quella che il Concilio ci presenta: una chiesa adulta, una chiesa intorno all’ascolto della Parola e ai sacramenti (non solo sacramenti, quindi) e una chiesa che vive nella missione e nell’evangelizzazione nella vita quotidiana fuori dal recinto parrocchiale. L’80 % della nostra attività pastorale è invece tutta nella dinamica contraria.

La prima cosa di fondo è capire perché resistiamo. Noi comprendiamo che il volto di chiesa tridentina è finito, perché era legato a un contesto rurale, a una chiesa che cambiava lentissimamente e perché lentamente cambiava la società. Oggi la trasformazione è continua, rapida, accelerata. I linguaggi sono diventati diversi, il modo di vivere i rapporti uomo-donna, di essere famiglia, di vivere il lavoro, di partecipare alla vita sociale, sono completamente cambiati. Eppure noi ancora riproduciamo le stesse procedure di catechismo dei bambini e di forma di sacramentalizzazione che sono ancora della forma tridentina. Capiamo che il Vaticano II ci ha offerto un’altra immagine di parrocchia, di chiesa locale, di evangelizzazione, ma facciamo fatica a farla diventare la vita quotidiana in tutti i suoi aspetti. E soprattutto facciamo fatica in alcuni elementi:

1)      considerare i laici corresponsabili reali nella vita ecclesiale, perché ancora i ministri ordinati sono i soggetti e i laici sono i "collaboratori" dei presbiteri. Ma questa non è la visione del Concilio: la parola dei ministri ordinati che ci rimanda alla fede apostolica ha bisogno della parola dei laici che è quella che interpreta il vangelo nell’oggi, nella cultura, nel divenire della storia, nel mondo. Noi siamo invece una chiesa squilibrata, perché ascoltiamo una parola che ci rimanda alle radici della fede apostolica (quella dei ministri ordinati), ma facciamo fatica ad ascoltare sinodalmente la vita dei laici e la corresponsabilità che esercitiamo.

2)      Il Concilio ci rimanda alla libertà, a un’istanza profonda di libertà di coscienza e di responsabilità nel proprio percorso formativo, ma sono pochi gli spazi nella vita di chiesa che noi dedichiamo alla formazione degli adulti (non i soliti praticanti, ma gli adulti in generale) e a una fede adulta nello stile e nella forma. E così pure cogliamo che quelle istanze di comunione autentica di cui il Concilio parla non sempre vengono accolte.

 

Perché la chiesa non riesce a fare questo salto? Un primo perché è legato a una mancata riforma.

La riforma liturgica è stata fatta: dal 1966/67 fino al 1971 si sono prodotti una serie di rituali, messali, lezionari nuovi, che hanno permesso una riforma liturgica → la lingua italiana nella celebrazione, la liturgia della parola e la liturgia eucaristica con uguale importanza … tanti elementi che ci hanno permesso di assimilare la Sacrosantum Concilium, il documento sulla liturgia. Così pure la riforma catechistica è stata in parte seminata: ha permesso un rinnovamento della catechesi più biblica, sappiamo che dovrebbe esserci una catechesi degli adulti, un coinvolgimento dei genitori, c’è il percorso del rinnovamento dell’iniziazione cristiana … è una riforma iniziata non ancora compiuta, ma con alcune prospettive.

Quella che è mancata completamente è la riforma intorno all’idea di popolo di Dio, cioè quella riforma della chiesa che ci permettesse nella vita quotidiana di vivere quello che LG 2 ci offre. Perché la riforma strutturale della vita ecclesiale è stata fatta solo per la Curia romana (subito dopo il Concilio), poi è stata fatta la riforma del Sinodo dei vescovi e la riforma sui consigli pastorali (che però sono solo rappresentativi su delega), ma non c’è una forma di chiesa nella quale la parola dei laici (quella che viviamo nella quotidianità, nello sforzo di vivere il vangelo nel quotidiano) possa trovare uno spazio adeguato. Il Card. Lercaro, che ha fatto il Concilio, diceva “non si sono stabiliti i processi attraverso i quali il rinnovamento e l’adeguazione coraggiosa delle proprie istituzioni potessero concretizzare il concilio”.

 

Ci troviamo allora 50 anni dopo il Concilio, con un’eredità conciliare aperta che ci viene consegnata, con un disagio che avvertiamo presente, percepiamo che le intuizioni non sono ancora pienamente compiute e che abbiamo un cantiere aperto come quello della Sagrada Familia. Come essere operai all’interno di questo percorso? Come laici abbiamo 4 vie da tener presente, 4 strade che dobbiamo privilegiare, tutte di attuazione di LG 2: per essere che cosa? Noi siamo chiamati ad essere

-          una chiesa-comunità profetica (Documento base sul rinnovamento della catechesi), cioè capaci di annunciare il vangelo al mondo, e

-          una chiesa capace di essere una comunità ermeneutica, cioè interpretativa del vangelo nell’oggi (non si può essere profeti se non si trova il modo di interpretare il vangelo di Gesù, la sua parola di salvezza, nell’oggi della nostra storia).

Allora, essere comunità profetica nella storia e nel mondo, e comunità ermeneutica (capace di interpretare ed esprimere il vangelo con i linguaggi dell’oggi della storia), sono i nostri 2 compiti. Come facciamo ad attuarli? Ci sono 4 questioni aperte, pagine che il concilio ci offre, che ancora non abbiamo letto e capito fino in fondo:

1         una questione di soggetti

2         una questione di forma ecclesiale

3         una questione di prospettiva

4         una questione di stile

1)      questione di soggetti

Chi sono i soggetti per il Vaticano II? Certo i bambini e i ministri ordinati, ma non solo. La chiesa che ci viene prospettata e la questione che dobbiamo affrontare è diventare una chiesa in cui gli adulti sono adulti e trattati come tali, portatori di responsabilità, e non da bambini come spesso avviene nel contesto ecclesiale. Noi siamo portatori di una parola necessaria per poter annunciare il vangelo oggi, perché saranno i laici impegnati nel lavoro, nella vita di coppia, nei problemi della vita matrimoniale o nei problemi di condominio, nei problemi economici, che avranno le parole adeguate per poter annunciare il vangelo oggi.

La prima realtà per cui dobbiamo lottare è essere una chiesa il più possibile di laici adulti e, in secondo luogo, una chiesa di "cittadini". Non siamo sudditi, come diceva il Bellarmino (“il laico è colui che non ha funzione alcuna nella chiesa. I laici sono sudditi che devono essere condotti”). Dobbiamo abbandonare la mentalità di sudditi, cioè la mentalità feudale per cui abbiamo un vassallo (il prete) o un signore potente (il vescovo o il papa). La mentalità di sudditi non è secondo il vangelo, perché noi viviamo la libertà ma anche la responsabilità di essere soggetti. Siamo cittadini nella chiesa, non sudditi. Questa questione di identità dobbiamo affrontarla.

Dunque abbiamo un problema di identità come laici, ma abbiamo anche un problema di formazione, perché non potremo mai essere adulti e cittadini, se non ci garantiamo come laici, migliori percorsi formativi, non solo sul Concilio, ma soprattutto sul testo biblico. Bibbia e concilio devono diventare i punti di riferimento della nostra esistenza. Ci mancano le parole della fede per dire la fede nel quotidiano e nella realtà ecclesiale.

 

2)      questione di forma ecclesiale

Il secondo problema è legato alla forma ecclesiale, perché la parrocchia tridentina (cioè la forma di chiesa prima del CVII) era giocata non solo sul fatto che i ministri ordinati, la gerarchia, sono soggetto e i laici sudditi, ma soprattutto in una forma piramidale che si sosteneva sulla base di processi comunicativi unidirezionali: da chi sa a chi non sa, dall’adulto al bambino, dal clero al laico. In tutti i processi nella chiesa (omelie, catechesi, la parola detta in pubblico nella società, i vespri della domenica, le adunanze, i percorsi formativi nelle associazioni), era il prete, il papa, il vescovo, che parlava in maniera unidirezionale.

Nella chiesa del Vaticano II (LG 12 e DV 8) i soggetti chiamati a parlare sono tutto il popolo di Dio, in alcuni momenti speciali i teologi, e poi la gerarchia. Le dinamiche comunicative non possono più essere pensate unidirezionali ma devono essere riportate alla chiesa antica e a quello che il CVII ci dice, cioè comunicazioni multidirezionali, pluridirezionali. Nei social networks, ogni punto della rete è ascoltatore, ma anche nella possibilità di essere emittente di un messaggio. Ciascuno ascolta, ma ciascuno entra anche in relazione con tutti gli altri punti della rete. Così è la chiesa: ogni punto (ministro ordinato o laico) è sempre chiamato ad ascoltare prima di tutto la parola di Dio, quindi le voci degli altri, e a offrire poi il suo proprio specifico contributo, sapendo che il contributo del ministro ordinato ci aiuta a comprendere la fede nella sua radice apostolica e ha una funzione specifica per garantire l’essere "noi" e non la somma di persona, ma che la parola dei laici è altrettanto importante quanto quella dei ministri ordinati.

 

A volte il punto rete non è dato da una singola persona, ma da una coppia unita dal sacramento del matrimonio. Il CVII ci consegna un altro elemento chiave: la sacramentalità e la ministerialità della coppia unita nel sacramento del matrimonio. L’unico ministero affidato non a un singolo ma a una coppia è appunto il ministero matrimoniale, che fa chiesa, è costitutivo come il ministero ordinato perché si fonda su un sacramento e che dobbiamo imparare a riscoprire. Ma noi ascoltiamo poco la voce della coppia. Ascoltiamo la voce di singoli operatori che sono anche sposati, ma non la coppia, chiamata a testimoniarci la comunione del regno di Dio nella differenza delle persone.

Allora abbiamo bisogno di una chiesa che ascolta di più la parola di Dio, ma una chiesa soprattutto in cui tutti ascoltano: non ci dev’essere più qualcuno che parla, la chiesa docente, e qualcuno che solo ascolta, la chiesa discente (laici). Noi siamo chiesa insieme, e la parola di laici e ministri ordinati dev’essere l’una in relazione a quella degli altri. Le dinamiche comunicative multidirezionali (sinodali = di cammino insieme) sono la realtà per la quale dobbiamo continuamente impegnarci, perché senza questa non c’è trasformazione ecclesiale.

Legato a ciò, quello che ci manca tanto è una chiesa che sappia farsi domande. Noi ci troviamo ancora davanti a una chiesa che è la portatrice di una verità codificata, soprattutto nella gerarchia episcopale (vogliono darci risposte su tutto, sempre, qualsiasi sia la competenza). Desideriamo invece una chiesa che ascolti il vangelo continuamente, ma anche una chiesa che sappia farsi domande, e che non stia sempre nella forma dell’essere sicura su tutto e avere risposte su tutto.


            Vescovo Albert Rouet, vescovo di Poitiers: “Vi rimando a un’utopia. Io vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver biso­gno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Io invece desidere­rei una Chiesa che si metta a livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi”. Aspirare ad essere una chiesa che non sa tutto ma si pone interrogativi e sta nella linea della ricerca, permetterebbe di uscire dal tempio e di stare effettivamente con gli uomini e le donne di oggi in una capacità dialogica reale.

 

3)      questione di prospettiva: leggere i segni dei tempi

Il CVII non ha pensato di prendere la dottrina e di enunciarla come se fosse da esprimersi nella stessa forma delle generazioni precedenti, ma ha cercato di leggere come già lo Spirito poneva dei fatti, degli elementi, dei cambiamenti sociali, culturali ed economici, che interrogavano la chiesa, in particolare la trasformazione. Parola-chiave nel Concilio era l’unificazione dei popoli, l’unità crescente, che in quel momento era il segno dei tempi per eccellenza. Per noi oggi la parola-chiave è cambiamento, trasformazione e la seconda è comunicazione, perché noi comunichiamo continuamente. Potremo trovare un nuovo linguaggio per annunciare la fede se vivremo i luoghi del quotidiano e l’ermeneutica delle grandi situazioni della vita.

 

4)      questione di stile ecclesiale

Dobbiamo cambiare stile ecclesiale perché il nostro stile ecclesiale è percepito come contraddittorio dal mondo, soprattutto su un elemento: abbiamo ancora davanti la sfida di essere una chiesa povera, perché siamo una chiesa troppo collusa coi potenti, troppo amante del rapporto con loro e dell’influenza pubblica che possiamo avere, troppo presa dalla logica del vincere ad ogni costo e una chiesa che spende e spande in tanti aspetti. Questa è una pagina del Concilio che non abbiamo saputo ancora accogliere.

La scelta dei mezzi della missione non può negare il fine della chiesa che noi annunciamo (LG 8). Noi abbiamo bisogno di mezzi per la missione, per l’evangelizzazione, per le attività pastorali … ma il problema è quali mezzi scegliamo e con chi ci alleiamo, da che parte stiamo, perché Gesù è stato da una parte precisa, dalla parte dei poveri, non da quella dei potenti e dei ricchi. Questo passo della LG è stato proposto dal Card. Lercaro, arcivescovo di Bologna, che chiedeva addirittura al Concilio che nel dare una definizione di chiesa, la definizione portante fosse: essere una chiesa povera. Non solo una chiesa per i poveri o dei poveri, ma una chiesa povera:

Come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Ricordando che Gesù « da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9), il Concilio sostiene che la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, ma per far conoscere con il suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Per questo essa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, e riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente (LG 8).

 

Allora le nostre scelte devono andare

-          alla cura della formazione per essere adulti e cittadini nella chiesa, non sudditi

-          alla cura della comunicazione multidirezionale e dello stile della ricerca e non della risposta sempre pronta per qualsiasi domanda

-          nel leggere i segni dei tempi

-          nell’essere una chiesa ecumenica, cioè capace anche di dialogo, e una chiesa povera.

Ci troviamo allora in un momento chiave e dobbiamo avere il coraggio di cogliere il kairòs, cogliere questo momento come un tempo opportuno per quella chiesa che desideriamo e che speriamo. Com’è possibile far questo? Dobbiamo cogliere ciò che è essenziale.

lezione di rabbì jochanan ben zakkaj

È tempo forse per la chiesa di accogliere la lezione che viene da un grande maestro ebreo, Jochanan ben Zakkaj, narrata da Paolo de Benedetti (Ciò che tarda avverrà, Qiqajon, Bose 1992). Ci permette di comprendere cosa è nostra responsabilità oggi.

Jochanan ben Zakkaj era un rabbino che viveva a Gerusalemme. Nel 68 d.C. la città è circondata dai Romani che non fanno uscire nessuno dalla città, tranne i morti. Jochanan ben Zakkaj è una persona qualunque, non è membro del sinedrio o un potente, ma capisce che va presa una decisione essenziale, consapevole dell'ineludibile destino che segnava la città e il tempio: bisogna saper abbandonare quello che tutti riterrebbero al centro, cioè il tempio. Capisce che è il momento giusto non solo per uscire dalla città, ma è il momento essenziale per portar via quello che conta. Riesce a uscire da Gerusalemme, si fa portar via dai suoi discepoli in una bara, abbracciando il rotolo della Torah, perché capisce che il tempio sta per essere distrutto, ma deve salvare ciò che è essenziale per poter mantenere l’identità del popolo. E allora si finge morto e porta con sé il rotolo della Torah.

Jochanan ben Zakkaj è l'unico a saper leggere la storia e trova il modo di dare continuità all'esperienza religiosa di cui è parte: sa distinguere ciò che è essenziale e decide che cosa salvare per dare reale continuità all'esperienza religiosa di un popolo.

 

La decisione di rabbì Jochanan ben Zakkaj ha avuto per l’ebraismo un’importanza incalcolabile: egli riuscì a preservare la continuità della tradizione e portò a Javne (dove si rifonda il giudaismo), i mezzi giuridici, rituali, organizzativi per sopravvivere. C'è molto da riflettere su quello che può fare un uomo: rabbì Jochanan era uno studioso senza autorità ufficiale, non aveva la presidenza del sinedrio centrale e non era il patriarca. Eppure egli fu il solo a scorgere chiaramente quello che si poteva conservare e quello che si doveva abbandonare. Ai cristiani non è accaduto di dover compiere un mutamento così radicale come quello toccato all'ebraismo, per poter rimanere se stessi; ma non si può dire che non sarebbe stato o non sia ugualmente necessario oggi. Infatti, il grande tempio della cristianità tradizionale è già profondamente intaccato dal fuoco, e sono venuti meno i riti che vi si compivano per dare al mondo intero una buona coscienza (la parrocchia tridentina). Ma questo incendio è, su scala umana, straordinariamente lento; quasi inavvertibile è il crollo se non si guarda indietro e tutto ciò rende ancora più difficile che sorga un uomo come rabbì Jochanan ben Zakkaj che decida di portare fuori dal tempio che sta per essere distrutto, ciò che deve essere salvato, la Torah. Ogni volta che qualcuno, più per istinto che per lucida consapevolezza fa qualcosa del genere, viene accusato di profanare, sconsacrare, secolarizzare la santità. Ma oggi ogni cristiano è personalmente impegnato a uscire dal vecchio tempio della cristianità e seguire una stella destinata a condurre proprio lui. Solo così alla fine tutta la chiesa di Dio si troverà in salvo, in questo mondo profano ma così caro e così amato da Dio.

 

Che ciascuno nel proprio contesto possa essere un nuovo rabbì Jochanan ben Zakkaj! Perché tutta la chiesa possa, grazie al nostro contributo, ritrovare ciò che c’è di essenziale, sapendo abbandonare quella forma tridentina che il Concilio ha ormai superato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lavori di gruppo

1.       commentare e condividere le idee più significative della relazione

2.       elaborare una domanda per la relatrice

 

-          Ruolo di collaborazione dei laici col ministro ordinato: al momento attuale è più una subordinazione che una collaborazione. Il parroco non ti chiede un contributo di idee per elaborare un progetto, piuttosto ti chiede “Mi fai questo? Mi distribuisci la comunione? Mi vai a fare quel tal servizio?” → come poter entrare in un ruolo più attivo o di collaborazione all’interno di questo sacerdozio comune che stenta a decollare?

-          Formazione dei laici: oggi spesso i laici sono chiamati alla collaborazione per dei servizi, formati forse per quel servizio, ma una formazione globale della persona è difficile. Cosa pensa dello sviluppo di tutti i movimenti, delle nuove comunità, che c’è stato come frutto del concilio?

-          Come potremmo noi dare un contributo concreto perché avvenga questo cambio di mentalità nella vita di tutti i giorni, a contatto con chi incontriamo, in casa o fuori, non specificatamente nei gruppi parrocchiali?

-          Esperienza di una parrocchia dove il nuovo parroco sta incontrando un successo enorme: feste, processioni, statue, raccolta di soldi … Le persone più impegnate sono letteralmente in crisi, le altre sono entusiaste. Come conciliare questi 2 aspetti, il non voler far le pecore e una chiesa che esca dal tempio?

 

Laici, formazione, movimenti. Nell’avvicinarci ai documenti del concilio non dobbiamo essere ingenui, perché sono frutto anche di un lavoro di ricerca del consenso, di rielaborazione e di “compromesso”. Questo vale soprattutto per il tema dei laici, perché in realtà nel concilio c’è una doppia teologia del laicato:

-          una più legata agli anni ’50, cioè allo specifico dell’essere laici nel mondo del lavoro e nei vari contesti di vita … in pratica, la teologia del laicato sviluppata in maniera particolare dall’AC → idea che siano i vescovi o i preti a dare le indicazioni, gli orientamenti, che poi i laici applicano.

-          accanto a questo, il concilio ha sviluppato invece, nella 3^ e 4^ sessione, un’idea dei laici come soggetti in prima persona nella chiesa → laici corresponsabili = portatori di una parola e di uno stile di azione che non è quello dei ministri ordinati.

La prima cosa in cui dobbiamo impegnarci è cercare degli spazi di dialogo, il più possibile continui e puntuali, a partire dalle nostre specifiche competenze ed esperienze di vita, perché queste diventino dialogo, oggetto di confronto, di dibattito, all’interno del contesto parrocchiale diocesano. Perché noi non siamo semplicemente applicatori, ma siamo chiamati ad avere anche una parola nella chiesa per aiutare l’insieme del soggetto ecclesiale a comprendere il vangelo e vivere il suo compito. E questo manca. Per 2 motivi:

-          le dinamiche comunicative sono ancora unidirezionali. Questo perché non siamo laici adeguatamente formati. Abbiamo effettivamente una formazione legata all’attività che facciamo, ma non abbiamo ancora le parole che può avere un presbitero nel parlare delle questioni di fede. Soprattutto la nostra formazione biblica è abbastanza carente, come pure la nostra formazione riguardo i documenti del concilio.

Una formazione noi però l’abbiamo anche in altri campi, quelli della competenza professionale, genitoriale, relazionale ... Il problema è che nella chiesa oggi queste competenze non vengono riconosciute. Sembra che per far pastorale serva solo la conoscenza biblica e teologica. Ma non è vero! Per vivere un’esperienza pastorale efficace e significativa entrano in gioco tutte le competenze acquisite nella vita quotidiana: psicologiche, pedagogiche, la capacità di progettazione ... Dobbiamo perciò aiutare i nostri ministri ordinati (vescovi e presbiteri) a riconoscere le tante competenze di cui la comunità cristiana ha bisogno (e che sono già presenti nella comunità stessa) come significative e necessarie.

-          Il Vaticano II è stato un concilio di trasformazione e cambiamento anche riguardo la figura del ministro ordinato. Prima del concilio il punto-chiave era fortemente legato al prete come sacerdote, era legato alla dimensione sacrale, sacramentale o di formazione catechetica di natura dottrinale-unidirezionale. Oggi il Vaticano II chiede anche al prete e al vescovo, di “dislocarsi” e questo muta radicalmente la forma dei rapporti, perché chiede al presbitero di avere non solo competenze biblico-teologiche ma anche la capacità di essere colui che guida un popolo nella comunione della fede. Che non vuol dire sostituirsi a tutti gli altri. E chiede al presbitero di capire il rapporto tra vangelo annunciato e momento celebrativo, senza che la dimensione sacramentale diventi l’80 % delle attenzioni e delle prospettive.

Questi 2 elementi hanno chiesto ai preti un cambiamento di mentalità molto forte. I preti che l’hanno vissuto durante il concilio, hanno vissuto la gioia di questa trasformazione, ma non sempre sono riusciti a trasmettere alle nuove generazioni di preti questo elemento. Ecco quindi che molto ritorno alla devozione, alla dimensione di una religiosità popolare e sacrale, cioè non formata fino in fondo, trovano "successo" nello stesso clero giovane.

Laici e ministri ordinati, dobbiamo aiutarci reciprocamente ad essere ciò che siamo, perché non possiamo stare gli uni senza gli altri.

Don Lorenzo Milani alla fine degli anni ’50 (nel pieno della chiesa pre-conciliare) scriveva “Dobbiamo aiutare i nostri vescovi ad abbattere un muro di fogli e di incenso che li separa dal resto del popolo di Dio”. A volte queste parole possono valere anche per noi oggi.

Dobbiamo dunque aiutarci reciprocamente: i presbiteri devono fornirci una formazione biblica e teologica più significativa e aiutarci a cogliere l’eredità del concilio; mentre noi laici dobbiamo aiutarli a cogliere la dimensione di una vita quotidiana, perché il vangelo si esprime nella vita → Gesù non faceva un trattato dottrinale sul regno di Dio, ma parlava in parabole prese dalle esperienze della vita quotidiana: la donna che spazza la casa per trovare la dracma, la donna che mette il lievito nella pasta, il contadino che semina … tutte immagini ed esperienze che permettono all’ascoltatore di capire fino in fondo.

 

Prima del concilio esistono alcune esperienze di aggregazione laicale in una forma differente (AC, la Gioventù operaia cristiana …). I movimenti come oggi li conosciamo, sono uno dei frutti del concilio. La Christifideles Laici (30) riconosce l’apporto non solo dell’evangelizzazione e dell’apostolato fatto dai singoli laici, ma anche il laicato organizzato nei movimenti, secondo una spiritualità specifica: in questo senso sono quindi un dono dello Spirito, significativo.

Altro grande elemento di novità del Vaticano II è la chiesa locale. Il CVII è passato da un’ecclesiologia fondamentalmente universalistica (cioè pensata prima a partire dalla chiesa universale intorno al papa, da cui poi si pensavano le diocesi, le parrocchie …) a una visione rivoluzionaria che parte dalla chiesa locale (la porzione del popolo di Dio, intorno al vescovo, il vangelo annunciato, l’eucaristia e il dono dello spirito nei suoi diversi carismi e ministeri).

Allora il senso dei movimenti e dell’apostolato specifico deve essere maggiormente legato (e questa è la sfida che abbiamo) a quella che è la vita della chiesa locale, dove ci sono tanti carismi, tante spiritualità, tanti ministeri, e una vita che deve arricchirsi di questa pluralità di volti, di storie, di sensibilità, di modi di vivere il vangelo, di parole per annunciare il vangelo. Questo è stato vissuto solo parzialmente perché i movimenti sono fondamentalmente, in massima parte, legati a una struttura di chiesa universalistica. Dobbiamo accettare la sfida di mettere insieme chiesa locale e vita di movimenti, riconoscendo il valore di una parola dei laici che i movimenti sicuramente hanno maggiormente proposto o accentuato. La sfida comunque è la chiesa locale, perché se la perdiamo di vista perdiamo uno degli elementi chiave del concilio.

 

Cosa possiamo fare nella vita di tutti i giorni? Offrire non solo il nostro servizio, ma anche la nostra parola che interrompa quella logica di manovalanza che spesso i presbiteri anche per ragioni di tempo ci propongono. Ma è anche questione di un cambio di modello, soprattutto su 2 fronti:

-       il modello catechistico → perché la nostra catechesi è troppo legata a una forma di preparazione ai sacramenti e troppo incentrata sui bambini. Dobbiamo rovesciare le proporzioni, come dicono il concilio e il DB: 80 % di energie per gli adulti, 20 % per i bambini. E bambini vuol dire da 0 a 6 anni, non solo da 7 a 14. Perché i bambini nella fase più recettiva e più significativa sono lasciati a se stessi. La comunità cristiana, "fissata" sulla preparazione ai sacramenti, non riesce a capire quella catechesi quotidiana, quell’iniziazione alla vita di fede, che tradizionalmente le mamme, le nonne, le zie hanno sempre fatto (tutte ci hanno insegnato le preghiere, portato in chiesa, in un contesto di vita religiosa tridentina). Oggi il modello, i tempi della vita, lo stile di vita delle donne è completamente diverso, e quindi come comunità cristiana dobbiamo farci carico di questo. Rivedere quindi il modello catechistico puntando sulla catechesi degli adulti, sui centri di ascolto, sull’ascolto della Scrittura, sull’acquisire parola per poter annunciare la fede nella vita quotidiana, è un punto-chiave. Perché nessuno di noi annuncerà il vangelo con le parole del quotidiano agli amici, ai vicini di casa, in palestra, nel luogo di lavoro, coi bambini del catechismo, nella visita agli anziani … se non abbiamo la quotidianità familiare con la parola di Dio.

-       L’altro elemento è questione di identità: dobbiamo imparare di più una dimensione contemplativa della vita, cioè vivere la vita sapendo che i linguaggi del quotidiano, le esperienze che viviamo, se diventano oggetto di riflessione alla luce della parola di Dio, ci costruiscono e ci "santificano" progressivamente. Ma non separati dalla vita, bensì all’interno di questa dinamica quotidiana.

 

"Successo" di processioni, momenti fortemente celebrativi e momenti ricreativi. Questi 2 momenti, ricreativo e di devozione popolare o di celebrazioni tradizionali, rispondono a 2 bisogni che dobbiamo riconoscere nella vita:

-          il bisogno di vivere l’esperienza della preghiera

-          la dimensione della comunione gratuita, che viviamo nel momento della festa.

Sono 2 dimensioni importanti della vita umana, ma non possono essere prese da sole. Perché è necessario, tanto nel momento della religiosità popolare quanto nel momento della festa, saper trovare parole di un annuncio evangelico (consapevole, dichiarato e formativo) che non limitino quel momento a un momento separato della vita, perché sennò si ritorna nella logica del sacro e del profano. E Gesù ha superato questa logica. Noi non viviamo una vita secondo una logica del religioso, di una religione strutturata e devozionale. Noi siamo chiamati, in Gesù, a vivere la vita in pienezza. E quindi il momento della religiosità popolare come il momento delle feste, sono 2 momenti che possono essere importanti. Il problema è in quale contesto vengono inseriti. E questo la comunità cristiana deve tornare a comprenderlo alla luce di ciò che sta al primo posto: l’annuncio del vangelo. Perché quello che ci fa chiesa non è solo la carità (anche se quello è il segno distintivo dei cristiani) e nemmeno il sacramento. Prima del sacramento e del servizio reciproco sta un principio generatore di chiesa, il vangelo annunciato. È al vangelo che dobbiamo permanentemente ritornare.

 

(DV 8) La tradizione, cioè la linfa vitale che fa essere chiesa, cresce per l’apporto di 3 componenti:

-          la percezione delle cose spirituali e delle parole trasmesse di tutti i cristiani

-          la riflessione sulle esperienze spirituali e le parole trasmesse (compito dei teologi)

-          l’apporto di coloro che hanno carisma certo di verità (vescovi).

Allora la chiesa cresce certamente per l’apporto dei vescovi e dei teologi, ma anche ogni volta che c’è una seppur piccola percezione delle cose spirituali e delle parole trasmesse che è di chiunque di noi nella vita quotidiana, che sia un vescovo o un laico, un adulto o un bambino. Questa è la chiesa che dobbiamo avere a cuore: quella chiesa che sa riconoscere tutte le piccole intuizioni della fede che sono del nostro quotidiano.

Cosa possiamo dunque fare? Possiamo essere cristiani il più possibile consapevoli, coscienti, attivi e responsabili in questo dinamismo. Perché questo è il nostro primo e primario compito.

 

-          A livello mondiale, come chiesa cattolica, questo passaggio è pronto? Perché in alcune zone dove il Medioevo non è poi così lontano, i "sudditi" necessitano di questa forma di gestione: è comodo venire comandati, si sa sempre cosa si deve fare …

-          Significato del successo di religioni come l’islam: stanno facendo un percorso simile o diametralmente opposto al nostro? Se stiamo andando nella direzione giusta, come mai il successo di una religione così diversa?

-          Nel testo di Armando Matteo, “La prima generazione incredula”, ci sono dati piuttosto sconfortanti per quanto riguarda i giovani: solo il 9,4 % di loro frequenta sistematicamente la chiesa. C’è una relazione tra alcuni mancati elementi di applicazione del concilio e questa situazione? Se sì, quali? La chiesa non sta prendendo poco seriamente la situazione dei giovani, la loro lontananza dalla chiesa?

-          Dopo il primo slancio, dopo i primi anni del concilio, ci si è arenati nuovamente: qual è stata la ragione per cui tutto si è disseccato un’altra volta? Riflettendo sui sacerdoti, non solo su quelli anziani ma anche quelli di nuova produzione: che linea si sta prendendo nella loro formazione?

-          Affrontando il tema del laico come manovalanza, come persona che lavora alle dipendenze … in quanto assemblea missionaria sogniamo la chiesa, la nostra parrocchia, come quelle delle missioni, dove c’è un parroco, una coppia, una consacrata/o … si lavora insieme e la domenica si va a celebrare o si va a dare la paraliturgia in tutte le parrocchie. Sogniamo una comunità dove il leader non sia più solo il parroco. Tanto più che al di fuori della parrocchia ci sono altrettante maniere non strutturate di lavorare più e meglio per fare del bene.

-          Sobrietà della vita: come gruppo missionario ne parlavamo 20 anni fa in pieno boom economico e ci ridevano dietro; oggi ce ne chiedono conto. Quanti anni ci vorranno perché le idee discusse oggi passino? Per abbreviare il tempo c’è qualche soluzione?

-          Dopo tante regole, tanti limiti che abbiamo nella vita, abbiamo veramente la volontà di fare le tante cose che possiamo, nel rispetto degli altri? La nostra volontà dov’è ferma? È ferma a 50 anni fa o durante il cammino di questi 50 anni siamo riusciti a scavare qualcosa, ad andare oltre quel confine o quel muro che certe volte ci lega? Nella nostra vita quotidiana, abbiamo veramente la volontà di essere testimoni responsabili del vangelo?

 

Formazione teologica dei ministri ordinati → punto-chiave sotto 2 aspetti:

-          per ragioni storiche legate al modello tridentino, pensiamo ancora la formazione dei presbiteri sostanzialmente giocata secondo il modello del seminario, modello che ancora rimanda a una tipologia di ministro ordinato fondamentalmente legato all’individuo davanti alla comunità e a dei ritmi formativi e a una spiritualità di tratto monastico o di vita religiosa, e non invece legato a quello che sarà poi il compito di animare una comunità, alla capacità di dialogo e comunicativa. È una formazione più incentrata sull’aspetto intellettuale che non sulla dimensione pastorale. E soprattutto è una formazione che i futuri presbiteri fanno da soli. È vero che nel weekend vanno nelle comunità, però sono pochissimi i momenti formativi in cui insieme, ministri ordinati e laici, si formano. Gli esercizi spirituali continuano a farli in tempi diversi secondo modalità differenti. Perché non è possibile viverli insieme?

Dobbiamo chiedere di rinnovare la struttura del seminario, perché il seminario forma ottimi preti tridentini. È stato fondamentale per 500 anni, ma noi ora abbiamo bisogno di preti del Vaticano II. Abbiamo bisogno anche di vescovi del Vaticano II, che siano al servizio della chiesa locale, nella specificità della loro voce profetica.

-          Il CVII ci ha riconsegnato una terza figura di ministro ordinato, che non dobbiamo dimenticare e non dobbiamo ridurre nelle sacrestie e nella logica del sacro: la figura del diacono, che è ordinato al ministero ma non al sacerdozio. Quindi è una figura di ministro ordinato che deve aiutarci ad annunciare il vangelo nella carità e nella vita quotidiana. Anche questa è una pagina (LG 29) che ancora non abbiamo compreso fino in fondo.

 

Imparare dal mondo missionario per non avere nelle parrocchie il ministro ordinato a fronte della comunità. Se vogliamo essere corresponsabili, insieme, sicuramente dobbiamo imparare dall’esperienza che viene dal mondo missionario di team pastorali, con le diverse ministerialità (quella del ministro ordinato, prete e diacono, quella della coppia unita dal matrimonio, quella di laici e laiche) che si pongono a servizio della comunità a tempo pieno, insieme, nella dimensione comunitaria di uomini e donne. E questa è l’altra sfida a cui non possiamo non pensare.

Il CVII è stato il primo concilio in cui la chiesa è diventata mondiale, in cui non solo si è pensato alla chiesa diffusa ovunque, ma a una chiesa portatrice della ricchezza dei paesi, delle culture, delle tradizioni, veramente una chiesa a dimensione e misura mondiale. Ancora forse non abbiamo compreso com’è stato e com’è ricco di potenzialità questo passaggio.

La chiesa è pronta? Sì e no. Esiste una chiesa enormemente ricca di esperienze significative e di quella visione di chiesa-popolo di Dio. La chiesa più vivace è quella che ci viene dall’America Latina o da alcuni contesti missionari in Africa o in Asia: è una chiesa che ha passione per l’evangelo e sa come la chiesa nasce (1Gv 1,1-4), cioè a partire dall’annuncio della Parola. Dobbiamo re-imparare questo. Come pure dobbiamo re-imparare come si diventa cristiani. Noi veniamo da secoli in cui una volta nati, si è stati subito battezzati. Ma l’esperienza missionaria e il catecumenato ci dicono che non si nasce cristiani, lo si diventa. Dobbiamo re-imparare da queste "chiese giovani" la logica delle primavere ecclesiali, che abbiamo parecchio abbandonato.

Giovani. Noi viviamo in un contesto di secolarizzazione crescente. Percepire che c’è un mutamento (tempi, modalità, linguaggi, forme di appartenenza ecclesiale diversi) è determinante. Ma questo non è un problema: il vangelo e il cristianesimo si sono affermati in un contesto certo non secolarizzato (era pagano), ma sicuramente non cristiano. Dobbiamo imparare a riscoprire questo momento storico come un tempo opportuno: è il nostro kairòs! E noi in questo tempo, che sappiamo segnato dallo Spirito, dobbiamo imparare a cogliere che cosa il processo di secolarizzazione ci sta segnalando. Sono proprio i giovani che possono aiutarci a comprendere questo, perché sono coloro che intuiscono più immediatamente i germi di un processo e di uno sviluppo futuro.

Il Card. Martini nel 1999 diceva “ci sono alcuni compiti essenziali. Il primo è cercare di ascoltare i giovani per comprendere queste dinamiche, perché loro sentono il bisogno di una revisione, che non trovano, di quello che è il linguaggio delle relazioni, degli affetti, dell’amore.” E come chiesa parliamo poco questo linguaggio, perché abbiamo ricondotto troppo la dimensione dell’affettività e del valore delle relazioni a una dimensione esclusivamente moralistica o etica.

Secondo elemento di fondo: i giovani ci segnalano che le forme di appartenenza ecclesiale devono essere inventate con maggiore creatività. Noi abbiamo solo il modello tridentino della parrocchia rurale, fatta per un gruppo di persone che vivono nello stesso territorio, che non hanno grandi spostamenti, nella quale il contesto ecclesiale rappresentava un momento di identità e di svago, parrocchia fatta per non cambiare. Noi oggi siamo soggetti al cambiamento. La cifra del nostro esistere è cambiare, il senso della possibilità, della trasformazione. È chiaro che la parrocchia tridentina che insiste sul territorio e su una struttura con procedure abbastanza ripetitive, standardizzate, non può rispondere alla realtà dei giovani. Perché il giovane di oggi vive secondo processi di appartenenza plurale, molto fluida e creativa. Dobbiamo allora inventarci delle forme differenti (e i movimenti in parte l’hanno fatto) rispetto a quelle che abbiamo ricevuto. Però non dobbiamo perdere un valore della parrocchia, cioè il rapporto tra vangelo e territorio, intendendo per territorio la presenza di una comunità ecclesiale all’interno di un contesto umano, perché la chiesa è chiamata ad essere segno e non può essere una somma di persone che fanno il loro cammino spirituale individualmente. Allora i giovani ci segnalano la necessità di pensare un nuovo volto di parrocchia, e di pensare nella chiesa locale la parrocchia e anche altre forme di responsabilità e di appartenenza sul territorio.

Ci segnalano anche un altro elemento, il valore della libertà: libertà di accettare il vangelo, di accettarne una parte (perché non tutto si accetta subito → capacità della progressività), di rifiutarlo. Da secoli, invece, noi come chiesa non abbiamo più accolto il rifiuto, le obiezioni, le fatiche dell’interlocutore adulto davanti al nostro annuncio del vangelo. Non sappiamo far tesoro della lezione delle obiezioni, del rifiuto, delle domande. E quindi non sappiamo più annunciare il vangelo in forme nuove, assumendoci la responsabilità di trovare linguaggi, stili, prospettive altre.

La sfida allora è di essere una chiesa "fragile", che accetta di puntare non sulle strutture definite una volta per tutte, ma sui processi formativi continuamente giocati e riproposti: passare dall’idea di una chiesa-guscio di tartaruga che ha paura di questo mondo e si rifugia sotto il carapace (che certo la protegge ma la rende lenta e soprattutto quando vede avvicinarsi qualcosa che la spaventa si nasconde e si ferma) a una struttura interiore fluida, flessibile, com’è lo scheletro umano, molto fragile ma capace di dinamismo. I giovani ci aiutano proprio a comprendere questo.

 

L’islam è un tipo di appartenenza tradizionale (si è islamici per nascita) e c’è una certa semplicità (ci sono 5 precetti molto puntuali), mentre il cristianesimo non dà norme o precetti né una struttura esterna, ma chiede continuamente, nella forma in cui oggi lo viviamo, la fatica dell’interpretazione, chiede di porci sotto l’ascolto della Parola alla sequela di Gesù con creatività e la fatica di discernere.

 

Quanti anni passeranno prima di veder questo? Tutti quelli necessari finché il regno di Dio non verrà. Noi siamo una generazione che vorrebbe vedere immediatamente realizzata questa chiesa bella e significativa del concilio. Sta a noi affrettare i tempi (2Pt), dobbiamo attendere e affrettare per anticipazioni seppur piccole di chiesa viva secondo il sogno del concilio.

Però dipende un po’ dalla nostra volontà. Il problema vero non è dire "non posso", pensando alle conseguenze che verranno a noi, ma dire a noi stessi "non posso o forse non voglio?". Non nascondiamoci di fronte ai nostri "io non posso fare niente", perché dietro quel "non posso" in realtà sta un "non voglio giocarmi fino in fondo". Mossi dalla speranza del vangelo e dalla forza dello Spirito, decliniamo quel "non posso" in "voglio e quindi posso"!

AVVISI